(Roma 1746–1820)
Nel 1768 viene istituito in Accademia il Concorso Balestra, destinato alle prove con soggetto storico o mitologico, solitamente tratto dagli auctores greci e latini. Alla seconda edizione nel 1773 viene scelto così il soggetto proposto da Mengs allora principe dell’Accademia e tratto dal supplemento all’Iliade di Quinto Smirneo e da Pausania (lib. 5). Due i concorrenti premiati: Vincenzo Pacetti e Giuseppe Martini rispettivamente primo e secondo classificato.
Se la terracotta di Pacetti è sempre stata riconosciuta come una delle opere più importanti della collezione accademica, la mancanza della prova di Martini, probabilmente dispersa già poco dopo il concorso, ne ha inficiato la fortuna critica dell’autore.
Il suggerimento di Francesca Sabatelli a chi scrive, di restituire a Martini il gruppo in terracotta conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti e finora dato come anonimo, permette di gettare nuova luce sul Concorso del 1773 e sugli anni del principato di Pacetti in Accademia.
La prova di quest’ultimo si caratterizza per una ripresa puntuale del celebre gruppo del Pasquino posto alla fine secolo XVIII sotto la Loggia de’ Lanzi a Firenze. L’inserimento del dettaglio della base montuosa dal profilo mosso e frastagliato permette di determinare quell’ambientazione scenica che invece non è presente nel modello antico e che non si ritrova nella terracotta conservata a Pitti. A questo dettaglio si aggiunge il drappo sulle spalle di Achille che restituisce movimento al gruppo, accentuandone il senso rotatorio e il pathos della narrazione. Tutti elementi che, secondo Golzio, ancora lo legano alla produzione artistica barocca di matrice berniniana (Golzio 1933). La struttura piramidale del gruppo del Pasquino è conservata nella prova di Pacetti pienamente consapevole dell’importanza che il mantenimento della diagonale visiva avrebbe generato nell’occhio dell’osservatore. Questi viene così chiamato a concentrarsi e condividere il pathos presente nel volto di Achille. Proprio quel volto che, accostato al Laocoonte, potrebbe essere un richiamo alla Testa tipo “Pasquino” conservata ai Musei Vaticani. In tal senso è interessante rilevare come quest’ultima opera fosse stata da poco rinvenuta da Gavin Hamilton nel 1769 al Pantanello e che, per la vicinanza tra lo scozzese e lo scultore romano, sicuramente fosse nota a Pacetti già prima che andasse ad arricchire la collezione del Museo Pio Clementino. Da questo marmo viene ripreso non solo l’elmo corinzio macedone ma anche la decorazione ai suoi lati, probabilmente riferita all’educazione di Achille al seguito del centauro Chirone. Il resto del gruppo è quasi una copia di quello attualmente sotto la Loggia de’ Lanzi. Certamente la giuria per l’assegnazione del premio deve aver apprezzato la grande qualità del modellato della terracotta di Pacetti, ma allo stesso tempo deve aver tenuto anche conto di una ripresa così fedele del modello antico. Dopo il concorso, la carriera di Pacetti sarà piena di successi professionali e di riconoscimenti ufficiali, coronati dalla nomina nel novembre 1779 ad “Accademico di San Luca a pieni voti” e dall’elezione a direttore della Scuola del Nudo in Campidoglio nel gennaio 1785 e dalla nomina all’unanimità alla carica di principe dell’Accademia di San Luca nel 1796 e ancora nel 1801 (Cipriani 1991). Dalla lettura dei Giornali risulta evidente l’intensificarsi del rapporto con artisti e committenti francesi durante tutti gli anni Ottanta del XVIII secolo. La figura chiave in tal senso è quella di Agostino Penna, vicina al gruppo di artisti francesi residenti a Roma che in diverse occasioni parteciparono ai concorsi tenuti dall’Accademia. Tra questi certamente vi è Chinard, vincitore del primo premio al Concorso Balestra del 1786 e proposto accademico già l’anno seguente proprio dallo scultore romano. Ma la vicinanza esistente nei primi anni Ottanta con l’ambiente transalpino è testimoniata dal fatto che Pacetti appoggi la richiesta di far nominare la pittrice parigina Marie Geneviève Bouliard accademica di merito presentando una “testa […] opera delle sue mani” (I Giornali di Vincenzo Pacetti 2011). Pacetti con questa terracotta forse interpreta poco il tema del concorso rifacendosi appieno a una delle opere più rappresentative della statuaria classica barocca, quasi confermando il giudizio di Honour che lo vuole: “scultore di grande tecnica più che di originalità, che dà il meglio di sé nel tardo barocco più che neoclassicismo canoviano che abbraccerà tardi e riluttante” (Honour 1963). Tuttavia, con la prova del 1773 dimostra non solo di avere le doti del grande scultore, ma di essere uno degli artisti centrali nel panorama artistico romano che ha legato la propria storia a doppio filo con quella dell’Accademia di San Luca.
Fabrizio Carinci