Annunciazione
Autore
Biagio d’Antonio Tucci (attr.)
(Firenze 1446 – 1516)
Data
1500-1506
Tecnica
olio su tavola trasportata su tela
Dimensioni
cm 168 x 173,5
Provenienza
lascito Michele Lazzaroni, 1934
Inventario
696

L’Annunciazione fu segnalata per la prima volta nel 1926 come opera di Lorenzo di Credi da Anna Pellegrini, quando ancora si trovava presso la collezione romana del barone Michele Lazzaroni: nell’anno 1934, l’opera fu compresa nel gruppo dei dieci dipinti che, dopo la morte del barone furono donati all’Accademia di San Luca. La studiosa intuiva, però, nella prospettiva incerta della stradicciola che s’inerpica verso l’alto, anche la mano di un allievo, poiché lontana dalla maniera precisa e incisiva di Di Credi.
Sarà Gigetta Dalli Regoli, nel 1966, a riportare l’autografia in favore di Biagio d’Antonio Tucci, riconoscendo gli abili interventi di maquillage operati da Vergetas, restauratore di fiducia del barone che infaticabilmente si dedicava al recupero e al restauro di dipinti
Di formazione fiorentina, come rivelano gli echi, dal Lippi e dal Verrocchio, svolse la sua attività fra la Toscana e la Romagna, operando soprattutto a Faenza a partire dal 1476. 
Nella composizione impostata prospetticamente con chiarezza e lucidità, il gruppo cita, nella formula iconografica, l’Annunciazione di Filippo Lippi a Monaco. 
L’Arcangelo Gabriele invece mostra stringenti analogie con quello di un’altra Annunciazione di Biagio d’Antonio (Pinacoteca di Faenza) da cui sembra derivare la costruzione anatomica, malgrado la leggera sproporzione delle gambe. Sulla fronte si alza lo stesso bizzarro ciuffo dell’angelo annunziante dell’opera biagesca, probabilmente su tavola e ritagliata come pannello singolo, riprodotta tra le foto del Fondo Bombelli (Gabinetto Fotografico Nazionale di Roma - inv. B882) o dei dodici angeli nel riquadro avignonese con il Padre Eterno, del Musée du Petit Palais dello stesso autore. Un ulteriore indizio della paternità biagesca può forse ritrovarsi nell’angelo eretto sulla sinistra il quale, tralasciando alterazioni e addolcimenti fisionomici, sembra evocare il san Giovanni Evangelista della pala Bazzolini del 1504 (Faenza, Pinacoteca Comunale). Il confronto con quest’ultima dunque potrebbe addurre a sostegno della datazione suggerita da Roberta Bartoli all’inizio del Cinquecento per la tavola ex Lazzaroni.  

Valentina Oodrah

 

 

Il lascito Michele Lazzaroni (1934)  Il barone Michele Lazzaroni (Roma 1863-Nizza 1934), esponente della nuova aristocrazia romana nell’Italia postunitaria, dimostrò interesse per ogni ambito artistico dedicandosi alla scrittura, alla pittura e al collezionismo, in particolare a quello dei Primitivi italiani e dei maestri rinascimentali soprattutto veneti e toscani. Nelle vesti di mercante d'arte, il barone prese parte attiva al fenomeno di quella che oggi è definita "falsificazione d’arte antica", incaricando abili restauratori a intervenire su dipinti danneggiati o di modesta qualità al fine di renderli appetibili soprattutto alla clientela americana. Eletto accademico d’onore nel 1890, Lazzaroni dispose per testamento un lascito di dieci quadri della sua collezione all’Accademia di San Luca. La scelta dei pezzi – compiuta alla sua morte nel 1934 dai più illustri conoscitori dell’epoca quali Federico Hermanin, soprintendente alle Gallerie di Roma, Pietro Toesca, storico dell'Arte del Rinascimento e Gustavo Giovannoni, presidente dell’Accademia – riguardò  un cospicuo numero di dipinti italiani di soggetto religioso dei secoli XV e XVI. Il legato accolse anche tre ritratti, tra cui un’effigie femminile di Alessandro Allori (recentemente identificata con Isabella de’ Medici da Fabrizio Biferali), la Tentazione di Paris Bordon e Giuditta ed Oloferne di Giovanni Battista Piazzetta. 

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