(Bologna 1552-Roma 1614)
Per l’affermazione di una consapevole identità ricercata dalla donna artista nel maturo Rinascimento, questo piccolo autoritratto di Lavinia Fontna è un documento di esemplare importanza. La tela - donata da Giulio Navone all’Accademia di San Luca nel 1941 - era destinata verosimilmente alla famiglia del futuro sposo Giovan Paolo Zappi che descrive le trattative condotte tra il padre Prospero Fontana e il futuro suocero Severo Zappi a metà del febbraio 1577. A venticinque anni, alla vigilia del suo matrimonio, Lavinia costruisce con una trama di sapienti citazioni, il racconto di sé, attingendo a quelle fonti letterarie che a metà Cinquecento promuovono il nuovo fenomeno della donna artista. Nella iscrizione in latino dichiara la sua identità rispecchiando gli esempi delle mitiche pittrici celebrate da Plinio (Naturalis Historia)e riprese con varianti da Boccaccio (De mulieribus claris). Come le artiste dell’antichità Timarete e Irene, Lavinia è figlia di un pittore e come Marzia è virgo e si serve dello specchio per realizzare una fedele rappresentazione delle sue sembianze fisionomiche. Modelli di confronto sono gli autoritratti inventati circa venti anni prima da Sofonisba Anguissola, che ha unito in una geniale sintesi gli archetipi di derivazione classica ai comportamenti proposti da Baldassarre Castiglione nel Cortegiano per “la donna colta e virtuosa”, mostrando di conoscere anche le illustrazioni dei codici miniati quattrocenteschi del De mulieribus claris di Boccaccio. Ma nell’età del cardinale Gabriele Paleotti Lavinia deve integrare le strategie di auto-valorizzazione sperimentate dalla Anguissola nelle dinamiche e nei meccanismi del sistema artistico e ideologico della Controriforma. Un taglio prospettico ravvicinato isola in primo piano l’artista, che, come Sofonisba (Autoritratti, Napoli, Capodimonte e Althorp Park, Lord Spenser Collection) sta suonando la spinetta, lo strumento musicale più indicato per la grazia femminile, accompagnata dalla fantesca, che sorregge uno spartito. Esibisce una eleganza raffinata ma sobria, quale si conviene ad una giovane come lei “timorata di Dio e di onestissima vita e di belli costumi” secondo il giudizio del pittore Orazio Samacchini: i cappelli raccolti, i colori non sgargianti dell’abito, rosa e bianco, il candore prezioso del colletto ricamato, che incornicia il bel volto dalla chiara carnagione. Una prospettiva a cannocchiale mediata dal padre Prospero isola sullo sfondo la stanza da lavoro, dove solitario, quasi come un emblema, troneggia il cavalletto. Guardando i futuri suoceri con lo sguardo pensoso e fiero, Lavinia sembra dire che alle virtù proprie di ogni virgo onesta e colta, secondo la disciplina controriformata, porta come valore aggiunto alla dote il mestiere di pittrice con il quale può contribuire al benessere materiale della famiglia.
Vera Fortunati
Bibliografia essenziale
M.T. Cantaro, Lavinia Fontana bolognese: “pittora singolare”, 1552-1614, Milano 1989, pp. 72-74.
Felsina Pittrice. Da Cimabue a Morandi, a cura di V. Sgarbi, P. Di Natale, catalogo della mostra, Bologna 2015, pp. 142-143 (V. Fortunati; con bibliografia completa).
La riproduzione digitale del dipinto è stata eseguita con il contributo della Regione Lazio, Direzione Cultura e Lazio Creativo, Area Servizi Culturali e Promozione della lettura, L.R. n. 24/2019, Piano 2022