(Trieste 1888 – Roma 1970)
Formatosi a Trieste, gli esordi di Attilio Selva sono nel segno di Leonardo Bistolfi, nel cui studio torinese lavora fra 1905 e 1909 prima di stabilirsi a Roma. Dopo una stagione di sensualità barocca, infatti, arriva a un rigore formale di impianto donatelliano, tanto da indurlo all’inizio degli anni Venti a identificare nella scultura rinascimentale e in quella romana il proprio punto di riferimento, pur maturando debiti sia nei confronti della lezione di Vincenzo Gemito sia verso quella, più vicina, di artisti come Ivan Meštrović. Arriva così a un momento di depurato classicismo capace di conciliare il tema del mito (e un registro aulico) e un registro quotidiano. Non a caso, infatti, scriveva Antonio Maraini nel 1919 che Selva: “compone nel senso di distribuire le masse secondo un ritmo equilibrato, semplice, di ritagliare i profili secondo una linea netta, compatta. Modella, annullando le tracce della mano o della stessa in una porosità diffusa, a piani larghissimi, riflessi, come a ricevere il proiettarsi verso l’esterno del rilievo, l’affiorare sotto al pelle della struttura ossea e muscolare”.
Alla metà degli anni Trenta, periodo a cui risale Lucilla, ritratto della figlia dello scultore, Selva ha decantato i tratti più austeri ed enfatici della sua scultura, preferendo un’impostazione più raccolta, che ricorre al taglio tradizionale del busto ma coglie l’occasione per un recupero quasi ottocentesco di un modellato più mosso, come si vede nel trattamento del busto, alternato a momenti di trattamento più dettagliato, come nella preziosa treccia raccolta attorno al capo che si apprezza a una vista posteriore dell’opera, e a una sintesi dei volumi più solida e volitiva che caratterizza il volto.
Luca Pietro Nicoletti
La riproduzione digitale della scultura è stata eseguita con il contributo della Regione Lazio, Direzione Cultura e Lazio Creativo, Area Servizi Culturali e Promozione della lettura, L.R. n. 24/2019, Piano 2022