(Modena 1911 – Parma 1994)
In pittura, come in letteratura, esistono narratori e poeti. I narratori descrivono, illustrano, raccontano, anche attraverso la fantasia e l’invenzione; i poeti sentono e trasferiscono emozioni, vedono ciò che non si vede. Guttuso è un narratore, Morandi è un poeta. Nel Novecento, e in Italia, e non solo, avranno miglior fortuna i poeti che i narratori. Ma spesso non saranno di buon conio e molta produzione sarà una deriva dell’esistenzialismo, manifestandosi come estetismo dell’angoscia. A misurarsi con Morandi saranno, con autenticità di visioni e di emozioni, in pochi, e sempre a cavallo tra figurazione e astrazione. Tra questi, con diversa fortuna, Mario Marcucci, Alfredo Chighine, Ennio Morlotti e Carlo Mattioli, nato a Modena e attivo a Parma.
Tela, materia, colore sono in Mattioli un’unica cosa, e si fanno emozione estetica. Mattioli sa che il risultato è affidato a una misteriosa congiunzione tra ciò che già sappiamo, che già conosciamo (l’idea della pittura di paesaggio, di nudo, di ritratto e di natura morta), e un’improvvisa invenzione di ciò che fino a quel momento non c’era, che non conosciamo, ma che, d’un lampo, entra in noi, si confonde con le immagini consuete.
Il suo obbiettivo, lirico, è dipingere emozioni, entrare nella corteccia degli alberi, nello loro chiome, nelle distese di grano e di papaveri, come nel Paesaggio d’estate del 1975, donato dall’autore all’Accademia di San Luca l’anno seguente. La sua pittura si oppone a ogni casualità, è sempre sorvegliatissima, anche nel segno apparentemente più istintivo. Essa esprime un naturalismo razionale, più affine alla misura lenta e armoniosa di un Rothko, che alla nevrosi incontrollabile dell’informale, cui pure si accosta per le vibrazioni materiche della superficie. Di fronte ad alcune sue immagini si può pensare per un attimo a Tàpies. Ma le terre di Mattioli sono fertili, impregnate di vita d’acqua, alimentate, verdi; anche il colore vive nell’apparente monocromia: il giallo e il rosso vibrano, il nero riluce, l’azzurro è più azzurro. La superficie scabra, e in continuo assestamento per i nostri occhi, come lava, invischia e cattura la luce e insieme restituisce il senso e l’atmosfera di un momento, di un’ora, di una stagione. Così, oltre all’immagine della natura, la tela sembra riprodurre e trattenere anche i profumi e gli odori, e catturare le vibrazioni del vento. E quanto più la pittura si fa libera, e il segno svincolato da una immediata rappresentazione mimetica - giungendo a singolari tangenze con il Burri dei sacchi e dei cellotex, solo in apparenza più ardito di Mattioli - tanto più la natura viene restituita nella sua verità. Contrariamente a Burri, Mattioli si ferma un attimo prima dell’estetismo: resta un vero naturalista, di ceppo romantico, alla fine del lungo percorso sul quale ha trovato Constable, Corot e Fontanesi. Da essi Mattioli ha imparato che la pittura è tanto più vera quanto meno dettagliata, e l’ha concepita odorosa e liquida, grassa e trasparente. Nella attività tarda, l’artista è attratto dallo splendore della materia, si immerge nel colore come nella natura, e persegue una pittura organica come gli umori della terra e delle alghe nei fiumi. Splende anche il nero che, per lui, è come l’oro nei dipinti del Trecento e del Quattrocento. E, se Dio è rappresentabile, la natura nella sua infinita varietà è il tema della intera opera di Mattioli, che in essa si cala per restituircene l’essenza, in una esperienza totale, mistica, consumandosi nella visione. Possiamo così concludere: Mattioli, ovvero Deus sive Natura
Vittorio Sgarbi
Bibliografia essenziale
Carlo Mattioli: catalogo generale dei dipinti, Fontanellato 2016.
La riproduzione digitale del dipinto è stata eseguita con il contributo della Regione Lazio, Direzione Cultura e Lazio Creativo, Area Servizi Culturali e Promozione della lettura, L.R. n. 24/2019, Piano 2022