(Messina 1678 - Madrid 1736)
Filippo Juvarra, giunto a Roma dalla natia Messina nell’estate del 1704, dotato di una formazione interdisciplinare, nei dieci anni successivi pose le basi della straordinaria carriera condotta alla corte torinese dei Savoia, che lo connotò come uno dei più importanti architetti del Settecento.
Per quasi tutto il decennio romano dell’architetto, l’Accademia di San Luca ebbe un ruolo rilevante nella sua crescita artistica e professionale, inizialmente come teatro del grande successo conseguito nel concorso Clementino del 1705 ‒ al quale si riferisce questo disegno ‒ poi come sede dell’intensa attività didattica seguita alla sua aggregazione, avvenuta nel 1707 sotto l’egida di Carlo e Francesco Fontana. Gli eminenti accademici ne orientarono il primo periodo di studio dei monumenti romani, fino a quando, nel 1709, l’ingresso al servizio del cardinale Pietro Ottoboni lo indirizzò verso la scenografia teatrale.
Il saggio accademico sul tema di un Regio Palazzo in Villa per il diporto di tre personaggi (forse da identificare con i nipoti di papa Clemente XI: Annibale, Carlo e Alessandro Albani), bandito poco prima dell’arrivo a Roma del giovane Juvarra, riflette molti dei temi compositivi e dei riferimenti culturali che furono alla base del suo futuro successo come architetto di corte: l’abile interpretazione dei modelli a pianta centrale della trattatistica italiana del Cinquecento, la ricezione del lineare monumentalismo di Gian Lorenzo Bernini mediato dall’insegnamento di Carlo Fontana, oltre a una personale adesione al modo di ornare di Borromini e a una vera e propria idolatria per Michelangelo, come personificazione dell’idea di artista universale sviluppata già a Messina.
Nell’ambito del culto della centralità che lo pervade, l’impianto generale della villa è determinato dalla compenetrazione di due nuclei distinti: quello esagonale del palazzo moltiplicato nell’estremo contorno radiale e quello ottagonale del sottostante teatro d’acqua delimitato da due ponti e connotato sui lati obliqui da quattro edifici rettangolari fronteggiati da esedre loggiate, dove sorprendentemente la scenografia naturale prevale su quella architettonica.
Il palazzo, impostato su un impianto con tre corpi di fabbrica innestati al cortile centrale esagonale, rimanda esplicitamente a una variante del progetto di una villa per Girolamo Lando, l’ambasciatore veneziano a Roma, ideato da Carlo Fontana nel 1689.
Partendo dall’esagono di base, trasformato da salone coperto in cortile porticato, lo schema elementare del progetto di Fontana risulta progressivamente esteso alla grande scala richiesta dal soggetto accademico. I tre corpi di fabbrica delle residenze si allungano oltre il corrispondente lato dell’esagono, mentre i lati intermedi si arricchiscono di tre ambienti di forma ovale: uno centrale sporgente all’esterno e due laterali più piccoli con funzione di cerniera.
Al contempo il modello di Fontana diventa una chiave di accesso a un più vasto repertorio linguistico, quasi un compendio di matrici formali di derivazione trattatistica. In questo quadro risultano particolarmente congruenti i riferimenti ai progetti di quattro architetti significativi per l’universo creativo del giovane Juvarra: la casa di campagna a pianta ottagonale di Sebastiano Serlio (Libro VII, tav. 29), il castello con impianto esagonale di Jacques Androuet Du Cerceau (Livre d’Architecture), diversi tempietti di Giovanni Battista Montano (Scielta di Varii Tempietti Antichi, II, 1624, tav. 27), nonché il collegio con nucleo esagonale di Andrea Pozzo (Perspectiva pictorum et architectorum, 1700, tavv. 109-110).
Nella complessa organizzazione planimetrica del palazzo i fronti esterni, modulati da un ordine gigante di lesene composite, esprimono un’ariosa articolazione volumetrica esaltata dallo scenografico coronamento a pinnacoli dei blocchi rettangolari. Unica componente eccentrica di una virtuosistica rielaborazione di singole soluzioni riconducibili al sobrio classicismo dei progetti berniniani per i palazzi del Louvre e di Montecitorio, che legittimò, tra l’altro, l’unanime acclamazione dell’autore e contestualmente il suo ingresso nel mondo dell’Accademia romana.
Tommaso Manfredi