(Milano 1913 – Roma 1993)
Clerici iniziò a lavorare al Sonno romano nei primi mesi del 1953 per completarlo agli inizi del 1955 nel suo studio di via della Lungarina, a Roma. Un disegno a penna eseguito sul retro di una lettera indirizzata al fratello Francesco (1953 circa, Milano, Archivio Clerici) e un successivo studio preparatorio a carboncino (ripr. in Carrieri 1955, p. 94, n. 102) nel quale già si riconoscono le statue di Santa Cecilia e dell’Ermafrodito dormiente documentano le prime fasi dell’elaborazione del quadro. Questa cupa scena sotterranea, per la cui ambientazione Clerici s’ispirò alle Terme di Diocleziano, ove sono adagiate sculture romane, ellenistiche e barocche, in un silenzioso gioco d’intese teatrali tra sonno, estasi e morte, rappresenta la summa dell’opera dell’artista e del suo rapporto con Roma e l’antico. “Da ragazzo, nelle chiese di Roma ha contemplato a lungo le mummie vestite da regine nell’urna degli altari. Gli scheletri veri dei Santi Martiri e gli scheletri in marmo della scultura barocca”, ricordava Raffaele Carrieri nella prima monografia dedicata all’artista (Carrieri 1955, cit. in Fabrizio Clerici 2002, p. 34). Sulle impalcature fatiscenti di una sorta di scavo stratigrafico di Roma visto dall’alto e illuminato da luce aurea, giacciono sculture celebri quali, fra le altre, la Beata Ludovica Albertoni in estasi del Bernini, il mascherone della Bocca della Verità, la Santa Cecilia del Maderno, l’Eros dormiente dei Musei Capitolini, l’Arianna addormentata dei Musei Vaticani, il San Sebastiano di Giuseppe Giorgetti e la Santa Martina di Niccolò Menghini, il Fauno Barberini e l’Ermafrodito dormiente. Al centro del dipinto giace una rigogliosa natura morta composta di melograni, teschi e scheletri memori degli stucchi palermitani di Giacomo Serpotta, simboli di morte e rinascita.
“Giace in fondo alla memoria più oscura di Clerici, sotto più strati di oblio […], la visione barocca di civiltà perdute o decadute o morte – scriveva sapientemente l’amico Alberto Moravia nel 1955, in occasione della presentazione della mostra di New York – Clerici, in certo modo, è l’archeologo di se stesso, […] ma i suoi scavi avvengono in sogno […] Così nascono pitture come Sonno Romano, che non è affatto un catalogo di statue e figure di museo bensì la visione comprensiva di una situazione metafisica” (A. Moravia, in Fabrizio Clerici 2002, p. 38).
La tela, che in origine misurava 120 x 150 cm e fu ridotta in altezza da Clerici in un secondo momento, era destinata nel 1990 ad essere donata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna ma fu poi donata invece all’Accademia di San Luca, della quale l’artista fu più volte presidente. Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna Clerici donò la replica in dimensioni colossali dell’opera, intitolata Grande sonno romano, da lui eseguita fra 1983 e 1985 nel piano nobile di palazzo de Cupis preso appositamente in affitto. Architetto e pittore di grande sensibilità e raffinatezza, neo-settecentesco, onirico e visionario, d’indole contemplativa e stendhaliana, meditativa e malinconica, Clerici considerava la propria pittura una derivazione ideale, moderna ed enigmatica della metafisica di Giorgio de Chirico.
Alessandra Imbellone
Bibliografia essenziale
R. Carrieri, Fabrizio Clerici, Milano 1955.
Fabrizio Clerici, a cura di B. Mantura, catalogo della mostra (Roma), Roma 1990.
Fabrizio Clerici. Pro-Menade, a cura di Archivio Clerici, E. Campaiola, C. Costantini, catalogo della mostra (Roma), Roma 2002, p. 38 (A. Moravia).
Omaggio a Fabrizio Clerici (1913-1993). Sonno romano, a cura di M. Ursino, in collaborazione con l’Archivio Fabrizio Clerici, catalogo della mostra (Roma), Roma 2014.